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La polizia: paura e razzismo

Di Fatma Emam Sakory. Mada Masr (27/02/2014). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.

Sono cresciuta negli anni ’90, nel quartiere di Ein Shams – un “hotspot” islamista – e, sfortunatamente, la mia scuola era proprio accanto a una stazione di polizia. Ogni mattina per andare a scuola passavo davanti alla stazione di polizia e vedevo donne, vestite con abaya neri, sedute lì davanti ad implorare gli agenti affinché facessero arrivare ai parenti detenuti il cibo che avevano portato loro. Erano spesso oggetto delle peggiori parolacce del gergo egiziano. Questa scena di umiliazione dei detenuti e delle loro famiglie da parte dei garanti della legge mi è rimasta dentro. La mia paura della polizia era nutrita dall’immagine di una persona ammanettata e trascinata alla stazione mentre veniva picchiata e insultata dagli ufficiali davanti alla sua famiglia e a tutta la strada. È un’immagine che ha minacciato la mia stessa dignità.

Ricordo ancora il giorno in cui un poliziotto fu ucciso da un islamista. Persino la mia scuola fu occupata e potete immaginare quale paura instillò quella scena in un bambino. Da quel momento, la polizia non mi ha dato un senso di sicurezza, al contrario, era una minaccia, almeno a livello emozionale. Non capii le ragioni politiche di quell’incidente, mi restò solo la sensazione che la mia scuola era stata violata.

Quella sensazione si ripetette quando il deposto Presidente Hosni Mubarak inaugurò un ospedale militare vicino alla mia scuola e le forze militari furono nuovamente dispiegate all’interno della scuola. Ero alle elementari e di quegli incidenti non rammendo le date esatte, ricordo solo la nostra paura di fronte a quegli uomini in uniforme nera. Crescendo ho visto poliziotti prendere tangenti da autisti di autobus; ero, e sono ancora, agitata dall’immagine di un poliziotto che sequestra o rovina i prodotti portati dalla gente per essere venduti al mercato delle verdure di Muttaria. Una scena che rappresenta al meglio l’ingiustizia.

Ma il mio risentimento per le forze dell’ordine mi ha seguito anche fuori dall’Egitto. Quando studiavo a Malta, tra il 2006 e il 2007, ho scoperto che per accedere all’ufficio immigrazione c’erano due code: una per i bianchi e una per i neri. Io, che sembro una donna forte, una sostenitrice dei diritti umani, soffro di attacchi di panico in quei luoghi che abbracciano la segregazione razziale.

Ho collezionato diversi episodi in cui il mio colore, la mia razza, il mio sesso, la mia provenienza e la mia  religione sono stati causa di molestie e stereotipi. E ironia della sorte, mi sono sentita più minacciata quando ero in compagnia delle forze dell’ordine, sia dentro che fuori dai confini egiziani.

Ma per ovvie ragioni la mia rabbia verso la polizia egiziana è maggiore. Mi sento a disagio ogni volta che vado in giro per le vie del centro del Cairo, dato che le autorità l’hanno trasformato in una zona barricata. Ho la stessa sensazione ogni volta che passo dal campus di Al-Azhar, dove ci sono stati degli scontri tra la polizia e gli studenti islamisti. E la mia paura infantile della polizia torna ogni volta che vedo un poliziotto fermare un fattorino per controllare la sua merce.

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