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“La jihad delle donne. Il femminismo islamico nel mondo occidentale” di Luciana Capretti

Dal blog Con altre parole di Beatrice Tauro

Il libro di cui parliamo oggi è un saggio scritto dalla giornalista e scrittrice Luciana Capretti per la Salerno Editrice, che affronta il tema del femminismo islamico nel mondo occidentale.

Il lavoro ha scandagliato in diversi paesi occidentali la situazione delle donne musulmane e in particolare il loro impegno e protagonismo all’interno dell’istituzione religiosa, nel tentativo di superare la secolare discriminazione nei confronti delle donne. Questo tentativo viene definito “la jihad delle donne”, intesa proprio come sfida personale delle donne per ricondurre la religione islamica alla sua originale essenza dove la giustizia e l’eguaglianza dei sessi erano le cifre definitorie e dominanti.

Da ciò scaturisce la domanda alla quale il libro prova a dare una risposta: se le donne sono uguali agli uomini allora anche loro possono condurre la preghiera, peraltro eventualità non negata dal Corano e che Maometto per primo ha permesso. Cosa è successo allora nel corso dei secoli tanto da determinare una sempre maggiore discriminazione nei confronti delle donne, tale da decretarne l’assoluta sottomissione all’uomo?

Lo studio prende avvio dalla vicenda di Hajar “madre abbandonata che non ha abbandonato suo figlio, e da cui nascerà un popolo”. La parabola di Hajar rappresenta non solo simbolicamente la forza e la determinazione della donna, ma anche la sua capacità di resistenza e di resilienza, in grado di trasformare una sofferenza in un momento di riscatto. Una parabola che finisce per diventare il paradigma del femminismo islamico.

Alcune studiose e teologhe islamiche hanno approfondito lo studio della figura di Hajar e hanno riletto in chiave diversa i passaggi del Corano erroneamente interpretati per secoli: da queste errate interpretazioni è derivata la Shari’ah che pone la donna in condizione di assoluta subordinazione nei confronti dell’uomo.

Proprio a partire da questi studi le teologhe islamiche, prima fra tutte Amina Wadud, hanno sviluppato una teologia “femminista” del Corano, definita “femminismo interpretativo”, che si basa proprio su una rivisitazione della lettura dei testi coranici, all’interno dei quali si celerebbe la più egualitaria fra le religioni monoteistiche, “Per quattordici secoli il sacro testo rivelato da Allah a Maometto, sostengono, è stato letto e interpretato e tradotto solo da uomini che hanno così creato e rafforzato leggi patriarcali”. Come invece sostiene Asma Barlas, docente all’Ithaca College, “L’epistemologia coranica è fondamentalmente contraria alla concezione patriarcale perché si fonda sull’assoluta parità dei sessi, l’Islam è quindi progressista e liberale già nella sua essenza originaria”.

Ci sono quindi voluti quattordici secoli prima che, nel marzo 2005, una donna ha condotto la salah-al-jum’ah, preghiera del venerdì, dinanzi ad una ummah mista di fedeli, uomini e donne. Era Amina Wadud, afro-americana, la prima imamah riconosciuta nella modernità. La prima preghiera condotta dalla Wadud arrivò come conclusione di un percorso di studi approfonditi del Corano, dai quali la studiosa era riuscita a ricostruire, sulla base del principio del tawhid, unicità di Allah, il principio di reciprocità e uguaglianza fra l’uomo e la donna, uniti nella triade con il Dio. In più l’attenta analisi del Corano aveva dimostrato la totale assenza di divieti per le donne di condurre la preghiera nei confronti di una assemblea mista di fedeli.

Da qui ha preso le mosse una corrente di donne imameh che in diversi paesi occidentali oggi conducono regolarmente la preghiera del venerdì: in Danimarca, Canada, Germania, Stati Uniti, solo per citare i paesi nei quali la Capretti si è recata per parlare direttamente con queste donne che hanno determinato una drastica rottura con il passato.

Particolarmente interessante è il capitolo dedicato al cosiddetto “versetto della discordia” (Corano 4,34) che, nell’interpretazione corrente, legittimerebbe le punizioni corporali e le più efferate violenze nei confronti delle donne da parte degli uomini. La Wadud si è a lungo soffermata su quel versetto, non riuscendo in alcun modo ad accettare che l’Islam, religione di pace, potesse legittimare tali comportamenti nei confronti delle donne. E la chiave per smantellare questa secolare costruzione l’ha trovata nel termine “daraba”, da sempre interpretato come “battere” e che invece deve essere interpretato nell’altro suo significato, ovvero “allontanare”. E tale interpretazione, secondo la Wadud, viene giustificata dallo stesso comportamento di Maometto che, quando ha avuto problemi con le mogli non le ha picchiate ma si è allontanato da loro. Una interpretazione impeccabile che smonta secoli di malvagità e un lascito culturale profondamente negativo sulla religione islamica.

E questa quindi la personale jihad che molte donne musulmane stanno combattendo in Occidente, facendosi apripista di un movimento di liberazione delle donne all’interno e dall’interno della galassia islamica. E questo volume ben descrive questo sforzo, raccontandocelo con dovizia di riferimenti storici e teologici e arricchendolo con le dirette testimonianze di queste nuove paladine del Profeta.