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Iran, Reyhaneh Jabbari, morire di dignità

Articolo di Katia Cerratti

Avrebbe potuto salvarsi negando di essere stata stuprata, ma Reyhaneh Jabbari, 26enne iraniana condannata a morte con l’accusa di aver ucciso l’uomo che aveva tentato di violentarla, ha preferito perdere la vita ma non la dignità e cosi, il 25 ottobre, è stata impiccata nel carcere di Gohardasht a Karaj.

Nel 2007 la giovane arredatrice si era incontrata con Morteza Abdolali Sarbandi, chirurgo ed ex dipendente del ministero di Intelligence iraniano, che l’aveva contattata per commissionarle la ristrutturazione del suo ufficio. Durante l’incontro, Reyhaneh avrebbe subito un tentativo di stupro da parte dell’uomo e per difendersi lo avrebbe accoltellato, ma la procura di Teheran, ha accusato la donna di omicidio premeditato:“Ma è stato dimostrato in varie fasi del processo che tutti i suoi sforzi di fingere l’innocenza erano falsi. Le prove erano solide. Lei aveva informato un amico tramite messaggio della sua intenzione di uccidere. E’ stato accertato che aveva acquistato l’arma del delitto, un coltello da cucina, due giorni prima di commettere l’omicidio.”

Sempre secondo la procura, Reyhaneh ‘avrebbe più volte confessato l’omicidio ma avrebbe poi cercato di deviare il caso dal suo corso inventando l’accusa di stupro’.

Da più parti, invece, si sono levate voci secondo cui Reyhaneh non avrebbe avuto un processo equo e avrebbe confessato sotto pressione. Sembrerebbe infatti che dopo l’arresto, la ragazza sia stata posta in isolamento per due mesi senza poter vedere il suo avvocato e inoltre, pare non sia stato preso nella dovuta considerazione il fatto che lei avesse riferito che il delitto fosse stato commesso da un altro uomo presente nell’appartamento. E a questo proposito, le reazioni delle organizzazioni internazionali non si sono fatte attendere:“La notizia scioccante dell’esecuzione di Reyhaneh Jabbari è profondamente deludente. E’ un’altra macchia di sangue sui diritti umani in Iran” – ha commentato Hassiba Hadj Sahraoui,  vicedirettore del Programma per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International “Tragicamente, questo caso è tutt’altro che raro. Ancora una volta l’Iran ha insistito nell’applicare la pena di morte nonostante le gravi preoccupazioni per l’equità del processo.”

Altrettanto eloquenti le dichiarazioni del ministro degli Esteri britannico Tobias Ellwood, riportate dalla BBC online:Le Nazioni Unite hanno osservato che la sua condanna è basata presumibilmente sulla base di confessioni fatte mentre era sotto minaccia. Esorto l’Iran a mettere una moratoria su tutte le esecuzioni.”

Secondo la qisas, la cosiddetta legge del taglione, la famiglia della vittima può decidere le sorti del condannato accordandone o meno il perdono, Reyhaneh avrebbe infatti potuto salvarsi se solo avesse assecondato le richieste dei familiari di Morteza Sarbandi, ovvero, se avesse ritrattato di essere stata stuprata.

Così facendo, il suo nome non sarebbe finito nel già lungo elenco delle esecuzioni avvenute in Iran quest’anno, più di 500.

Ma non lo ha fatto.  Una scorciatoia avrebbe violato la sua dignità.

Così, sentendo vicina la sua fine, nell’aprile scorso ha registrato dal carcere un accorato messaggio vocale, il suo testamento rivolto alla madre Sholeh Pakravan. Basta leggerne un estratto e ascoltarne la voce disarmante per capire chi era Reyhaneh Jabbari e, soprattutto, per prendere coscienza del fatto che non si può restare a guardare.

Mia dolce madre, cara Sholeh, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via.

Khodā, Khodā, Khodā…Dio, Dio, Dio”. Questa la disperata risposta della madre fuori dal carcere.

                      Audio originale della voce di Reyhaneh Jabbari