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Il Mali e gli arabi

Di Mohammed al-Ashhab. Al-Hayat (11/06/2012). Traduzione di Carlotta Caldonazzo

Ciò che preoccupa delle fazioni rivali nel Nord del Mali non è tanto il fatto che gran parte del paese sfugga di mano a un’autorità centrale debole, quanto la possibilità che questo sfoci in un conflitto religioso tra i combattenti del Movimento di liberazione dell’Azawad e gli Ansar al-Din, sotto il vessillo dell’attuazione dei precetti della legge islamica. Non sembra facile d’altronde la missione del mediatore africano Blaise Campaoré (presidente del Burkina Faso, asceso al potere dopo aver diretto un colpo di stato che ha ucciso Thomas Sankara), che tenta di riunire i rappresentanti dei Tuareg e di ciò che rimane del potere centrale per porre fine alla frammentazione del paese.

I movimenti separatisti hanno tratto vantaggio dalla situazione di caos seguita alla caduta del presidente Amadou Toumani Touré, sfociata nel controllo dei Tuareg sulle grandi città del Nord del paese e nella perdita da parte dell’autorità centrale della capacità di influire sugli eventi successivi. Inoltre il conflitto religioso approfondisce la frattura tra le diverse componenti della popolazione maliana e i vari gruppi religiosi, in assenza di legge e stabilità, usano il linguaggio delle armi.

La crisi non è nata nel periodo successivo al crollo del regime, ma è parte di una serie di eventi e aspetti che non potevano che esplodere alla prima occasione. In Mali è accaduto all’incirca quello che abbiamo visto in Somalia o in qualsiasi altra regione in cui mancano le fondamenta di uno stato propenso alla vita e alla stabilità a prescindere dai cambiamenti di regime. La singola tribù o il singolo gruppo religioso fondamentalista non possono diventare alternative alla convivenza tra le componenti di uno stato unitario governato da valori civili, soprattutto lo stato di diritto e la stabilità.

Tra Africa orientale e occidentale, soprattutto nelle zone cariche di tensioni, conflitti e guerre etniche, c’è un denominatore comune che risiede nell’insormontabile barriera che separa il mondo arabo e le sue estensioni africane. Non a caso la mappa della balcanizzazione e della frammentazione corrisponde quasi interamente al confine tra i due mondi: i paesi arabi che hanno radici e identità africane a Nord e i paesi africani che hanno profonde relazioni con l’appartenenza araba a Sud. Tra i due ci sono vulcani piantati sui legami religiosi, che più che unire dividono.

Il dramma sudanese che ha portato alla nascita di due stati rivali ostacolandone la convivenza rappresenta oggi la metà degli ingredienti della questione maliana. Un domani poi Nigeria, Chad, Niger non avanzeranno pretese di un piano di spartizione riemerso dal passato. In precedenza gli artefici della spartizione del “Continente Nero” hanno tracciato i confini senza preoccuparsi della disposizione territoriale delle tribù, o dei fiumi o delle ricchezze. Lo hanno fatto per seminare il separatismo e le divisioni ogni volta che all’orizzonte sono apparse le avvisaglie della crisi. Probabilmente oggi guardano con soddisfazione laddove si manifestano contenziosi di confine: in Africa decine di conflitti più o meno latenti avvengono sullo sfondo della distribuzione etnica, geografica e religiosa.

Da più di quarant’anni il mondo arabo si è accorto che la sua forza risiede nell’apertura all’Africa e all’Asia e il sostegno al cosiddetto “Terzo Mondo” si è mobilitato attorno alle sue questioni egiziane. Tale esperimento ha portato alla creazione di una grande potenza sotto l’egida dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, che ha adottato la linea dell’affiliazione spirituale moderata. Un cammino seguito anche dalla Lega Araba, al punto che si sono cristallizzati i tratti di un dialogo arabo-africano degno di nota. Una vicenda simile a un’inesorabile corrente di liberazione subentrata al movimento di non allineati negli orientamenti indipendentisti.

E noi dove siamo? Il mondo arabo si è ripiegato su se stesso e molti africani non provano alcun imbarazzo nel dire che alcune fazioni arabe hanno trasferito i loro conflitti nell’arena africana. Senonché l’aspetto più grave è che non sono gli stati a portare in giro problemi e crisi, ma gruppi religiosi fondamentalisti affiliati ad al-qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e alle loro omloghe organizzazioni estremiste, che hanno approfittato degli spazi vuoti lasciati dalle iniziative valide.

Nella crisi maliana in particolare era chiaro che le ipotesi confermate dalla realtà non avrebbero potuto avere altri risultati che il caos che ha frantumato il Sahel subsahariano, trasformato in terreno fertile per la proliferazione dei movimenti armati e fuorilegge. Si sono levate diverse voci circa i rischi ma solo riguardo alla preoccupazione di non assicurare l’espansione del mondo arabo e islamico in Africa.

Il presidente del Burkina Faso ha tentato invano di mediare per sanare il conflitto, cosa che nessun presidente arabo ha mai fatto, nonostante la crisi maliana sia molto vicina ai paesi arabi, per intensità e vicinanza all’epicentro del caos. Domani il fallimento della mediazione dell’Africa occidentale potrebbe giustificare un intervento occidentale. Di certo questo non avverrà nell’interesse degli africani che cercano prosperità e stabilità, anche con la diffusione di equilibri suscettibili di essere innescati e poi annullati da decisioni prese sull’altra sponda del Mediterraneo o dell’Atlantico.