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Il divieto dell’hijab come parte della guerra contro le donne

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Di Diana Alghoul. Middle East Monitor (10/08/2015). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia. 

Ancora una volta in Egitto imperversano i dibattiti sul hijab che, come al solito, vengono sollevati dalla classe dirigente per proprio personale interesse. Le attività commerciali nelle aeree turistiche quali Sharm al-Sheikh vietano alle donne che indossano il hijab di entrare nei ristoranti o nei centri ricreativi perché sostengono che il loro abbigliamento rovini lo “stile” dell’attività stessa. Inconsce del fatto che la loro discriminazione non è necessaria (la natura pluralistica della maggior parte del mondo occidentale, che questa gente ammira, dimostra che uomini e donne di qualsiasi fede praticano il loro credo anche con il loro modo di vestire), queste attività non fanno altro che alimentare la dinamica di potere che soggioga le donne. Infatti il divieto del hijab fa parte di una guerra più ampia contro il genere femminile e le donne egiziane hanno fatto sentire la loro voce sui social media per esprimere la loro rabbia e il loro disappunto nell’essere costrette a non indossare il hijab.

Osservando il modo in cui il corpo delle donne viene sorvegliato in Egitto, è chiaro che esiste una cultura dell’oppressione. Tuttavia il controllo sul hijab non dovrebbe essere una sorpresa. Dopotutto, Hale el-Malki e Ghada el-Tawil hanno perso il loro lavoro come presentatrici televisive per aver indossato il velo su una TV pubblica egiziana nel 2002, con la scusa che la loro scelta rifletteva le loro tendenze politiche.

A questo punto viene da fare il paragone tra il modo in cui vengono stigmatizzate molte donne velate in Egitto e Abrar Shahin, una ragazza palestino-americana che è stata votata come ragazza con più stile nel suo liceo nel New Jersey, o Noor Tagouri, la prima presentatrice di notizie velata in America. Secondo Yara Sherif Bassiouny, fondatrice della campagna “Respect My Veil” in Egitto, “è sempre esistita una tendenza anti-velo ma non quanto quest’anno e non così ovvia”. Yara sottolinea anche che non tutti i posti turistici hanno imposto questa restrizione.

I livelli di molestie sessuali in Egitto sono collegati a questa problematica e questo perché il monitoraggio dell’abbigliamento femminile rinforza l’idea che sia allo Stato sia alla classe dirigente importi poco del benessere delle donne. Uno studio svolto nel 2013 dalla UN Women ha mostrato che 99,3% delle donne in Egitto sono state molestate durante la loro vita.  Un rapporto pubblicato a maggio dalla International Federation for Human Rights ha messo in risalto l’ipocrisia del governo egiziano che scusa i sistematici abusi sessuali che avvengono nel Paese, tra i quali si contano episodi di donne violentate di fronte a ufficiali di alto rango del ministero dell’interno. Pare inoltre che a partire dal colpo di Stato di El Sisi le violenze siano aumentate, malgrado i media esaltino con orgoglio la legge anti-molestie varata il 4 giugno.

Queste leggi sono futili in un contesto in cui la polizia considera le molestie sessuali subite in ambito famigliare una questione privata o che sommergono le donne che sono andate a sporgere denuncia di domande quali: “Com’eri vestita? Hai fatto nulla per provocare il tuo molestatore?”. Dire a una donna che non può entrare in un posto perché il suo hijab la disumanizza e la degrada a rango di oggetto è un po’ come il poliziotto che domanda a una donna che va a denunciare una molestia come fosse vestita al momento dei fatti. In entrambi questi casi le donne vengono trattate come un peso della società.

C’è da dire che questo dibattito sul hijab porta con sé anche un elemento ideologico: alimenta l’islamofobia in un paese in cui l’80-90% della popolazione è musulmana. È importante risalire alle radici di questa problematica, e focalizzarsi sulla violenza di genere, all’interno della quale El Sisi sta attualmente spingendo una forma di nazionalizzazione del pensiero islamico. Nel tentativo di distruggere la Fratellanza Musulmana, il leader capisce che ha bisogno di allontanarsi dalle opinioni che la maggioranza degli studiosi nella storia islamica hanno ritenuto legittime e cerca di competere con esse a livello ideologico, militare e politico.

Le società che partecipano a questa tendenza contribuiscono inconsapevolmente a una discriminazione femminile che scavalca le frontiere dell’Egitto: molti islamofobi in altre parti del mondo, anche in Occidente, useranno il divieto di portare il hijab come leva per maltrattare le donne che lo indossano.

L’irresponsabilità dei membri della classe dirigente che perpetuano questa guerra contro le donne dev’essere guardata da un punto di vista ideologico. Non vogliono che l’abbigliamento islamico sia prevalente nei centri turistici perché desiderano promuovere un’immagine di quello che credono essere un Egitto moderno. In realtà, quest’immagine riflette non solo un modo di reprimere opinioni religiose che non vengono approvate dallo Stato, ma sottolinea anche la guerra in corso contro le donne.

Diana Alghoul è una giornalista e ricercatrice.

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