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Gioventù afghana: heavy metal sollievo dalla guerra

Asharq AlAwsat (01/07/2012). Traduzione di Claudia Avolio

Su un palco poco illuminato, i padrini del rock afghano si preparano al prossimo pezzo, mentre fotogrammi del film francese Le Haine (L’Odio) si alternano dietro di loro ed al pubblico viene chiesto che canzone canterebbero se stessero per morire. Per i District Unknown, la prima band heavy metal dell’Afghanistan, la risposta potrebbero darla brani come “Due Secondi all’Esplosione”, dal loro album di prossima uscita dal titolo “Una vita di 24 ore”. “Viviamo con la costante paura della morte che arriva all’improvviso,” dice Qasem Foushanji, chitarrista del gruppo: le band emergenti formate nella prima Scuola del Rock afghana inauguarata lo scorso maggio si contano sulle dita di una mano.

 

Il ritmo martellante dell’heavy metal e i testi aggressivi che rimbombano tra le pareti isolanti del Sound Centre di Kabul consente ai giovani afghani di sfogare la propria rabbia per la violenza cui hanno assistito negli anni di guerra prima e dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Il brano dei District Unknown dal titolo “La Bestia” ha versi come: “Grido con forza e cattiveria / Per farti scappare via”. “La bestia della canzone è la paura, e se ognuno riuscisse a sconfiggere la propria potrebbero costruire una realtà migliore per sé stessi,” dice Pedram Foushanji, fratello di Qasem, nonché batteritsta ed autore dei testi della band. La Scuola del Rock di Kabul, ospitata nel piccolo ristorante “Venue” della capitale, riflette anche il ritorno – o a volte, il semplice tentativo di esercitarle – delle libertà sociali ed individuali dalla fine del potere talebano nel 2001.

 

L’interpretazione radicale dell’Islam dei talebani aveva proibito cinema, tv e la maggior parte della musica, ad eccezione di quella legata alla religione. Aveva vietato alle donne di studiare e di lavorare. Sotto i talebani, una scuola del rock sarebbe stata rasa al suolo e i suoi musicisti uccisi. Ancora oggi, 11 anni dopo la fine del potere talebano, i giovani musicisti rock afghani sono a volte costretti a indossare maschere mentre si esibiscono, per evitare di essere attaccati da religiosi conservatori. “La nostra musica non parla di cuori spezzati o fidanzatini. Non è questo che noi viviamo,” dice Qais Shaghasi, chitarrista dei District Unknown, “Ciò di cui parla la nostra musica sono le volte in cui ti ritrovi davanti storie di quindicenni costrette dal padre a sposare uomini di 50 anni in cambio di denaro. Ecco cosa vediamo, qui”. Mentre lo dice, Qais indossa una t-shirt nera del gruppo trash metal americano Slayer.

 

I componenti della band afghana vivevano in Iran quando qualcuno regalò loro un album dei Metallica. Il suono incalzante ed aggressivo colpì subito i due giovani, per i quali un’infanzia trascorsa tra guerra e violenza li ha aiutati a entrare in contatto con quel genere musicale. “Mi sento davvero a mio agio quando suono heavy metal, perché ogni giorno qui si accumula un sacco di energia negativa,” dice Pedram, “Suonare metal mi fa sentire meglio. Fa per me ciò che per altri fa la meditazione…”. Parere di uno psicologo di Kabul, Mohammad Zaman Rajabi, è che l’heavy metal sia una calamita per i giovani desensibilizzati alla violenza. Proprio come per i giovani soldati americani che si sentirono attratti verso il rock degli anni ’60, quando si scontrarono con gli orrori della guerra in Vietnam.

 

Il film “L’Odio”, proiettato dai fondatori della Scuola del Rock durante un concerto, ritrae la dura vita di tre ventenni immigrati nei quartieri impoveriti della Francia. Alle immagini ha fatto eco una clip audio della biografia di Johnny Cash, “Walk the Line”. Quando il produttore Sam Philips chiede a Cash che canzone canterebbe se stesse per morire, lui risponde: “Canterei una canzone che facesse sapere a Dio come mi sono sentito qui sulla Terra. Una canzone che fosse la mia sintesi”. Un messaggio che crea empatia nei ragazzi afghani, ed è il co-fondatore della scuola, Beard, a dire: “Tre anni fa erano dei ragazzini timidi, la scuola li ha fatti sentire più sicuri di sé, donando loro una certa attitudine”. E continua: “Uno dei problemi più grandi dell’Afghanistan è che non c’è modo per le persone di esprimere le proprie opinioni: non puoi uscire in strada e metterti a dire questo e quello, la gente ti picchierebbe. L’unico spazio in cui puoi davvero esprimerti liberamente è la tela di un quadro. Oppure sopra un palco…”