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Gas da argille: mercato o ambiente

Le Matin dz (14/10/2012). Mentre è in corso il dibattito sui danni ambientali provocati dall’esplorazione e dallo sfruttamento del gas imprigionato negli scisti argillosi, gli ultimi studi dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, di multinazionali impegnate in prima linea come la Total e dei ministeri dell’ambiente di vari paesi rendono note cifre e conseguenze, con grado variabile di parzialità in ragione degli interessi in gioco. Due paesi in particolare sono interessati all’argomento. Gli Stati Uniti, dove il governo ha ceduto alle pressioni delle lobbies industriali, accordando il via libera alle trivellazioni, e la Francia, dove invece finora ha prevalso la posizione delle organizzazioni ambientaliste. Su una riserva mondiale di 448mila miliardi di metri cubi di gas, l’America settentrionale ne possiede più di 106mila. Al secondo posto c’è l’Africa con 72mila miliardi di metri cubi, seguita dall’Asia (70mila) e dall’America meridionale (58mila). Si tratta tuttavia di stime non universalmente accettate, il che aumenta il rischio che le esplorazioni si concludano con un nulla di fatto, a fronte degli alti costi in termini economici e di danni all’ecosistema.

Esperti e specialisti Usa hanno cominciato a registrare “incidenti” ambientali più o meno prevedibili nel 2010. Fughe imponenti di gas nell’atmosfera, contaminazione delle falde freatiche, impatto sulla salute degli abitanti delle zone vicine ai luoghi delle perforazioni (493mila siti). In Europa e Africa intanto lo sfruttamento dei gas da argille non è ancora iniziato e in Francia infatti movimenti e organizzazioni ecologisti sono riusciti a bloccare l’uso della fratturazione idraulica (hydrofracking). Nei paesi in via di sviluppo invece ciò che preoccupa maggiormente è la mancanza di un dibattito pubblico serio sulla questione. Governi come quello algerino o tunisino finora hanno preferito evitare il confronto con le rispettive società civili scegliendo la via della disinformazione. Ad esempio il primo ministro algerino recentemente ha assicurato che le ricerche e l’estrazione del gas da argille non comportano alcun rischio per l’ambiente. Dichiarazioni in palese conflitto con i paesaggi devastati (negli Usa in certe aree è stato scavato un pozzo ogni 500 o addirittura ogni 200 metri), la contaminazione delle falde acquifere a causa delle infiltrazioni di gas e di fluidi utilizzati per la fratturazione, l’inquinamento delle risorse minerarie in profondità, l’uso di un volume d’acqua tra 9mila e 20mila metri cubi per ogni perforazione, il trattamento degli effluenti e dei loro residui (composti chimici usati nella fratturazione idraulica che reagiscono con quelli presenti nel sottosuolo, come metalli pesanti, radionuclidi, radon, uranio, radio), i danni prodotti da guasti nei macchinari impiegati nelle perforazioni (esplosioni, incendi, esposizione a precipitazioni, inondazioni, sismi), le emissioni di radioattività gamma dai giacimenti di scisti argillosi, le fughe di gas CH4 con aumento dell’effetto serra.

In Africa, oltre all’inquinamento, lo sfruttamento dei gas da argille riduce le risorse idriche disponibili, già di per sé insufficienti rispetto al fabbisogno della popolazione e del settore agricolo, ma lo sfruttamento dei gas da argille resta un affare che fa gola. In Algeria (che già fornisce all’Europa il 10% del gas convenzionale, di cui è il quarto produttore mondiale) si trova la terza riserva africana, con 6500 miliardi di metri cubi. Ad aprile 2012 la compagnia nazionale per l’estrazione e la lavorazione degli idrocarburi Sonatrach ha siglato un accordo con la società italiana Eni, mentre a maggio di quest’anno la Sonelgaz ha firmato un accordo simile con la Royal Dutch Shell per la prima perforazione esplorativa nel bacino dell’Ahnet, ai confini con la Libia. Numerose sono state da allora le petizioni di organizzazioni non governative in Algeria e all’estero per fermare il progetto, ma la nuova legge sugli idrocarburi non facilita la situazione. Altri accordi di partenariato sono stati conclusi dalla Sonatrach con la canadese Talisman mentre sono in corso trattative con la Shell e la Exxon Mobil. Al secondo posto in Africa e al primo in Maghreb per volume delle riserve c’è la Libia (8200 miliardi di metri cubi), dove la situazione è ancora troppo instabile persino per le multinazionali del petrolio. Il governo tunisino invece (che può contare su 510 miliardi di metri cubi di gas da argille) ha già firmato un accordo con la Shell per procedere allo sfruttamento di questa “preziosa” risorsa saltando la fase dell’esplorazione. La situazione più confortante è quella della Mauritania, che secondo le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia non ha riserve di questo tipo di gas. Un problema in meno per l’ambiente e un incentivo in più a sviluppare il settore delle energie rinnovabili.