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Elezioni: Turchia anno zero

Turchia

Di Cengiz Çandar. Al-Monitor (08/06/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Le elezioni parlamentari di domenica scorsa, cui ha partecipato l’84% dei cittadini, aprono un nuovo capitolo nella storia politica della Turchia. Dopo circa dodici anni di dominio pressoché incontrastato iniziati con il suo insediamento alla carica di primo ministro, il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) perdono la maggioranza assoluta. Sfuma dunque la possibilità di realizzare il progetto di modifica costituzionale che avrebbe trasformato la Turchia in una repubblica presidenziale.

Ora inoltre le alternative sono i rischi che comporterebbe un governo di minoranza o la caccia all’alleanza con uno degli altri tre principali partiti. Il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), che ha conquistato il 25% dei consensi o il Partito del Movimento Nazionalista (MHP, di destra e considerato il braccio politico dei Lupi Grigi) che ha avuto il 16,3%. Per ora invece il Partito Democratico dei Popoli (HDP, di sinistra, filocurdo e attento ai diritti delle minoranze), ha escluso qualsiasi coalizione con l’AKP. Poco probabile invece è che Erdoğan rischi una caduta ulteriore indicendo nuove elezioni, come prevede la costituzione nel caso in cui i partiti non riescano a formare un governo e a ricevere il voto di fiducia entro 45 giorni.

Per l’AKP dunque le elezioni sono state sostanzialmente una sconfitta, visto che nella nuova compagine parlamentare avrà “solo” 258 seggi, contro i 132 del CHP, e gli 80 dell’MHP e dell’HDP. Il vero vincitore invece viene considerato l’HDP, fondato nel 2012 attorno a temi delicati come la giustizia sociale, la parità tra generi e tendenze sessuali e l’uguaglianza nei diritti tra le varie componenti della cittadinanza e della cultura turche (Rom, Armeni, Curdi e la comunità religiosa degli Yazidi). Si apre dunque una nuova prospettiva sul processo di pace con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), con interessanti ripercussioni regionali. Basti pensare che l’unica forza in grado di sconfiggere i cartelli del jihad di Daesh (ISIS) sono state le formazioni curde: non solo i peshmerga del Governo Regionale del Kurdistan iracheno, ma anche le Unità di Protezione Popolare (YPG) siriane, ala armata del Partito di Unione Democratica (PYD‎).

In quella che potrebbe configurarsi come una nuova pagina della storia politica turca, spicca fra tutte la figura di una delle guide dell’HDP, Selahattin Demirtaş. Cofondatore dell’Associazione Turca per i Diritti Umani e del presidio di Amnesty International a Diyarbakır, ma anche membro del Partito della Società Democratica (DTP), sciolto nel 2009 dalla Corte Suprema per legami con il PKK, da Ankara definito associazione terroristica.

Malgrado l’arresto di suo fratello Nurettin per appartenenza a questa formazione, Demirtaş ha sempre mantenuto posizioni moderate e inclusive, senza perdersi in inutili condanne in cambio di potere. A lui guardano infatti non solo le minoranze etniche, ma anche i movimenti che hanno portato avanti le proteste di Piazza Taksim. Infatti, uno degli aspetti storici di queste elezioni è l’entrata in parlamento di un numero consistente di donne, cristiani, curdi e armeni. Tra questi, Dilek Öcalan, nipote di Abdullah, che alla stampa ha dichiarato: “Posso essere curda, ma rappresenterò tutti gli sfruttati, gli oppressi, i dimenticati, tutti i popoli, le culture, le credenze e le lingue”. Una dichiarazione che, a prescindere dalle reazioni dei mercati internazionali, lascia ben sperare per la Turchia del futuro.

Cengiz Çandar è opinionista di Al-Monitor.

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