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Dopo la vittoria di Tikrit, cosa c’è nel futuro dell’Iraq?

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Di Mushreq Abbas Al-Monitor (16/04/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Al centro del dibattito politico iracheno, oltre l’urgenza di sottrarre terreno ai cartelli del jihad di Daesh (ISIS), c’è la questione del che fare una volta vinta la battaglia. Lo scenario politico, già complicato all’epoca dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki, attualmente è frantumato e da esso finora non è emersa alcuna strategia che vada oltre la singola vittoria.

Riconquistati Tikrit alla fine di marzo e nei giorni scorsi il sito petrolifero di Beiji, entrambi nella provincia di Salahuddin, le forze politiche irachene restano in disaccordo tra loro e con il comando statunitense della coalizione internazionale che dovrebbe sostenerli nella guerra contro i cartelli del jihad. Puntare a Mosul per Washington, spingere avanti la linea del fronte lungo l’Eufrate secondo le milizie sciite. La seconda via renderebbe prioritaria la conquista della provincia di Anbar, a larga maggioranza sunnita, una scelta dunque ambiziosa ma che rischia di essere un errore tattico.

Questa situazione è la diretta conseguenza della presenza sul campo di diverse forze che mirano a conquistare terreno a Daesh con diversi metodi, strategie e obiettivi. Vi sono le milizie sciite, una galassia non omogenea, spesso ancorata a legami tribali al pari di quella delle formazioni sunnite. Una caratteristica che spesso ha vincolato le loro scelte tattiche a obiettivi di minor respiro, senza considerare che le milizie sciite vengono spesso guardate con diffidenza a causa dei loro legami con l’Iran. Vi sono poi i combattenti curdi, tra i peshmerga (dal 2006 esercito regolare del Governo Regionale del Kurdistan iracheno, KRG) e le Unità di Protezione Popolare (YPG) predominanti nel Kurdistan siriano e vicine al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, (PKK, che in Iraq come in Siria conta diverse unità). Organizzazioni differenti e con diverse prospettive riguardo l’intervento militare esterno, anche perché gran parte dei paesi che costituiscono la coalizione internazionale considerano il PKK (attualmente impegnato in un difficile processo di pace con il governo turco) un gruppo terroristico.

Un esempio lampante è stato la battaglia di Tikrit, lanciata alla fine di marzo dal primo ministro iracheno Haider al-Abadi, che ha chiesto l’intervento della coalizione a guida USA dopo giorni di combattimenti tra i cartelli del jihad e le Unità di Mobilitazione Popolare (UMP), una sorta di esercito costituito da Baghdad e composto soprattutto da milizie sciite e dalle rimanenze sunnite dell’esercito governativo. Alla conquista sono immediatamente seguite polemiche per gli atti di vandalismo di cui sono state accusate le UMP e per l’intervento iraniano. Al contrario Daesh, approfittando delle divisioni interne degli avversari, ha mantenuto una struttura militare sostanzialmente intatta, riuscendo a scatenare offensive nella stessa provincia di Salahuddin, in particolare nei pressi della raffineria di Beiji, e in quella limitrofa di Anbar, dove circa una settimana fa hanno attaccato Ramadi, controllandone i settori settentrionale e orientale.

Nessuna strategia comune tra gli “alleati” neppure dopo la riconquista di Beiji da parte delle UMP, avvenuta sabato scorso, né dopo la notizia della morte di Ezzat al-Douri, ex braccio destro del deposto e ucciso Saddam Hussein, tra i principali ricercati di Washington dal 2006 e ultimamente considerato fondamentale per l’ascesa e l’espansione dei cartelli del jihad e soprattutto per la loro conquista di Mosul. Una curiosa vicenda la sua, visto che l’Esercito Naqshbandi, di cui era comandante, è sempre stato considerato apostata dalle formazioni sunnite radicali, mentre il partito Baath, di cui era tra i capi, è tradizionalmente laico, quindi osteggiato dai gruppi politici che si definiscono islamici. A una coalizione divisa si oppone dunque un’alleanza tra cartelli dai contorni vaghi, che tuttavia punta alla propaganda e all’espansione, arrivando a rivendicare persino attentati in Afghanistan.

Mushreq Abbas è opinionista di Al-Monitor.

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