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“Dille di scrivere libertà”: il 2013 nelle parole arabe della Siria

alla bambina morta di fame Alaa al-Masri - di Hani Abbas, artista siriano palestinese
alla bambina morta di fame Alaa al-Masri - di Hani Abbas, artista siriano palestinese
alla bambina morta di fame Alaa al-Masri – di Hani Abbas, artista siriano palestinese

Ho pensato: Non glielo posso chiedere. Chi può avere una buona disposizione nel discutere di parole arabe con quello che è successo e continua ad avere luogo in Siria? Eppure gliel’ho chiesto. E quando il poeta siriano palestinese Iyad Hayatleh mi ha mandato le sue parole arabe ci ha messo un secondo a scrivere sul suo profilo Facebook la stessa domanda per coinvolgere i suoi amici. Perché pur credendo di dar loro un fastidio, ho provato a chiedere. E i siriani, i palestinesi che ho incrociato per via semantica non vedevano l’ora di rispondere.

Ricordalo sempre – mi sono detta – la rivoluzione siriana chiede anzitutto libertà di esprimersi. Dalle parole scritte su un muro di Daraa da alcuni ragazzini siriani – non dimenticarlo – sono cambiati per sempre quei destini. Tanto che una parola sola non bastava: tre, cinque, dieci, c’è chi me ne ha mandate tantissime e ha concluso con “wa ilakh“, “eccetera”. In quell’eccetera sembra risuonare l’affermazione che rimane sempre molto da dire, rimane il bisogno e la voglia di esprimerlo: è questo che sto imparando dai siriani, dai palestinesi.

Ringrazio dal profondo del cuore i loro 140 “Mi piace” e i 77 commenti che ci hanno donato. Quanto segue è quello che hanno provato a dirci con le loro parole arabe del 2013.

I bambini di Yarmouk dalle pallottole alla fame - Issam Ayash, artista di Gaza
I bambini di Yarmouk dalle pallottole alla fame – Issam Ayash, artista di Gaza

La fame, ju’un. 13 volte, 13 pietre scagliate dritte allo stomaco di chi legge. Hanno scritto ju’un, la fame, e tajwi’, la fame che ti porta alla morte. Hanno scritto al-mawt ju’an, il morire di fame, e yamwtu ju’an: muore di fame. È il campo di Yarmouk che sta morendo di fame, a pochi chilometri da Damasco, perché la fame è l’arma del regime siriano. E c’è chi ha ricordato al-am’au al-khawiyya, gli intestini vuoti, richiamando nella mia testa la loro lotta per non piegarsi “se non al cospetto di Dio” come hanno scritto da Yarmouk qualche settimana fa.

Yarmouk. Non è un caso, credo, che la seconda parola scelta più volte sia proprio questa. 11 Yarmouk, 11 tentativi di attirarvi l’attenzione, 11 moti d’orgoglio per chi vi è nato, per chi non può vederla nelle condizioni cui la stanno costringendo. E per chi sta scoprendo il valore della sua bellezza, ora ferita. Soffocata da una parola che la segue quasi sempre, al-hisar, il blocco, l’assedio in cui la fanno vivere. Il campo degli shabab al-Yarmouk, i ragazzi di Yarmouk, come mi ha detto di scrivere Iyad il poeta. Lo sai che io – gli ho svelato all’inizio – ho scelto la parola Yarmouk? Una delle prime cose che ho notato è che questo nome ricorda nella forma un verbo all’imperfetto (il presente). Con quella “ka” finale che in arabo si usa per riferirsi a “te”. Così, pensavo, è come se Yarmouk mi stesse offrendo qualcosa. E quando la pronunciamo, Yarmouk, offriamo col suo nome qualcosa a chi lo ascolta. Chi ha scelto questa parola araba ha perso molto. E ci offre l’occasione di recuperare pezzetti di umanità, per provare a rimetterli insieme dove è stata colpita al cuore.

Il campo, al-mokhayyam. 10 volte mi hanno ricordato che Yarmouk (e non solo) è un campo. In arabo si usa questa parola per i campi palestinesi che sono campi (cioè sistemazioni temporanee) perché chi li abita rivendica il diritto al ritorno (al-‘awda) in terra di Palestina. C’è chi ha scritto che al-mokhayyam watan, il campo è la patria, perché ogni campo palestinese ricrea in se stesso già un angolo di Palestina. E c’è chi ha citato proprio le khiyam, le tende, perché la parola mokhayyam viene da khima, la vera e propria tenda. Anche Za’atari (“del timo”), il campo siriano in Giordania, è stato ricordato da chi ha scelto questa parola.

l'entrata di Yarmouk ritratta da Anas Salameh, artista siriano palestinese
l’entrata di Yarmouk ritratta da Anas Salameh, artista siriano palestinese

La morte, al-mawt. 10 immagini nere hanno ritratto questa parola dai contorni spaventosi. Quando ho chiesto all’artista siriano palestinese di Yarmouk Anas Salameh quale parola araba avrebbe ricordato del 2013, non ha esitato: ‘am al-mawt, (questo è stato) l’anno della morte. Qualcuno ha scritto mawt al-insaniya, la morte dell’umanità, cui fa eco assordante al-mawt gharqan, la morte per annegamento, in ricordo dei siriani morti nel Mediterraneo. Qualcuno ha ripercorso un anno asfissiante ripetendo la stessa parola nelle sue diverse fasi: al-mawt qasfan, la morte sotto i bombardamenti, al-mawt qansan, cioè braccati da qualcuno per cui sei bersaglio, come un cecchino, un aereo da caccia; “wa akhiran ju’an“, “e alla fine la morte per fame”. Un’espressione mi ha colpito molto: al-mawt wa la al-madhala, “la morte e non umiliante”.

La libertà, al-hurriya. “Dille di scrivere la parola libertà, insieme alla parola umanità – diritto di ogni essere umano sulla faccia di questa Terra”: così un’amica di Iyad Hayatleh ha scritto al poeta, e sono stati in molti a seguirla. al-hurriya è stata scelta 9 volte, da subito tralaltro: compare già nel secondo e nel terzo commento lasciati al post. al-hurriya li-Surya, libertà per la Siria, e al-hurriya li-l-mu’taqilina, libertà per chi è stato imprigionato. E i prigionieri sono citati almeno 6 volte, come vedremo tra poco.

I martiri, al-shuhada’. Come la libertà, anche il martirio appare 9 volte tra le parole dei siriani. al-shahid, il martire, diventa al-shuhada’, i martiri e ustushhida, subire il martirio, per non dimenticare i propri morti. Hanno scelto come emblema Khaled Bakrawi (Khaled al-Mokhayyam, cioè “del campo”) e Hassan Hassan (ramzu-l-watan, simbolo della patria, come l’ha definito una commentatrice al post) entrambi di Yarmouk uccisi sotto tortura nelle carceri del regime siriano. Ma anche Ayham Ghazzoul, uno dei più importanti attivisti siriani segnato dalla stessa fine, Abdalqader Saleh, leader dei ribelli della brigata aleppina Tawhid, e Ahmed al-Shibahi, rimasto a Yarmouk nonostante l’assedio, e lì colpito a morte. La stessa parola, shahid, è stata usata per ricordare i 12000 bambini morti dall’inizio del conflitto siriano, con l’aggiunta di jamil, belli.

I barili, al-baramil, i prigionieri, al-mu’taqiluna, e i traditori, al-khiyana. Sono tutte parole scelte 6 volte ciascuna. I barili con cui il regime di Assad bombarda Aleppo – una donna ha aggiunto l’aggettivo al-mutafajjira ‘esplosivi’ – che quando ho fatto notare al regista teatrale aleppino Abu Muhammad al-Ferdousi (ricordate l’Arab Dream Troupe? Mi ha detto che ora la situazione è così minacciosa da non poter svolgere più alcuna attività culturale, perché rischiano il linciaggio da parte di daesh (Isis)) che quella parola l’avevano scelta in molti, mi ha risposto:

“Perché sono 20 giorni che ad Aleppo veniamo uccisi dalle esplosioni dei barili che gli aerei di Bashar al-Assad lasciano cadere sulle nostre teste”. al-mu’taqil e al-mu’taqila (maschile e femminile di prigioniero) che vivono il loro i’tiqal (l’imprigionamento) e che sono tutti parte degli al-mu’taqilina fii sujuni-l-Asad, i prigionieri nelle carceri di Assad. L’attrice Samar Kokash, ad esempio, ricordata da una donna che l’ha descritta come “artista prigioniera delle carceri del regime sul cui arresto non si è ancora fatta alcuna luce”. E poi ta’dhib al-atfali fi-l-mu’taqalat, la tortura subìta dai bambini che vengono incarcerati.

I traditori, al-khiyana, vengono identificati con al-fasail al-filastiniyya, cioè le fazioni palestinesi, perché gli abitanti di Yarmouk si sentono abbandonati a se stessi anche da chi opera in loro nome in quanto palestinesi. Qualcuno poi ha scritto “laju marra thani“, “rifugiato per la seconda volta”, descrivendo in una espressione sola la condizione dei siriani palestinesi.

Al contempo, però, uno degli slogan più sentiti e che mi hanno mandato almeno in 3 recita: wahid, wahid, wahid, filastiniy wa suriy wahid: chi è palestinese e siriano si sente un’unica entità, per gli obiettivi condivisi tra le due parti e le lotte intraprese insieme.

La Ghouta, il massacro chimico: majzara al-kimawiya bi-l-Ghouta. Ci sono 4 riferimenti alla Ghouta e all’uso di armi chimiche, con un’espressione rivolta ad Assad che lo identifica come Bashar al-Kimawiy, Bashar il chimico. Chi ha scritto del massacro, ha aggiunto: “E poi la morte dell’umanità”. L’unico commento possibile, forse. Il cordoglio viene espresso da chi ha scelto la frase “Allah yarhamw“, “Che Dio abbia pietà”, rivolta spesso all’anima di chi è morto o è stato ucciso. E con lo stesso valore viene citato un versetto del Corano dalla Sura al-Baqarah “Ina lillahi wa inna ilayhi raji’un“, “Apparteniamo a Dio e a Dio torneremo”. Una delle frasi che mi sono rimaste più impresse dice: “ma lana ghayruk ya Allah“, “Non ci resti che tu, Dio”.

Vogliamo costruire una patria - Ahmad Salma, artista siriano palestinese
Vogliamo costruire una patria – Ahmad Salma, artista siriano palestinese

Le città, i luoghi, i quartieri. Ne hanno scritti tantissimi, dopo Yarmouk. Kafranbel, citata anche coi suoi striscioni (lafitat) che vediamo sorretti dai giovani della zona, con frasi di protesta e bellissimi disegni. Il campo giordano di Za’atari, Aleppo, Deir Ez-Zour e il suo quartiere hayy ash-Shaykhi Yasin, Saraqib, Moadamiya, Ras al-‘Ain, Homs la fiera (al-abiyya), e naturalmente yasminatu-sh-Sham, il gelsomino di Damasco. La patria, al-watan, viene descritta splendidamente da una donna che dice: “La patria è il luogo in cui tutto questo non dovrebbe mai accadere”.

Contro gli Assad, contro i regimi arabi, contro il resto del mondo che resta fermo. Mi ha colpito una frase scritta almeno 3 volte dai commentatori siriani: yal’anu ruhak ya Hafez, più o meno traducibile come “Accidenti a te, Hafez” riferito ad Assad padre. E poi qualcuno ha ricordato la frase ripetuta dalle milizie di Assad “al-Asad aw nahriqu al-balad“, “Assad o bruciamo il Paese”. irhal ya Bashar, “Vattene Bashar”, ha scritto un altro siriano. Qualcuno ha dato dei “figli di…” a “tutti i governi arabi, nessuno escluso”, ed estendendo lo sguardo al resto del mondo c’è chi ha dichiarato: “al-‘alam al-hurr akbar kadhiba“, “il mondo libero è la più grande bugia”, che provoca un senso di khidhlan, la delusione (è la parola nel primo commento che hanno lasciato al post). La comunità internazionale (al-mujtami’u ad-dawli), infine, è stata giudicata “saqit“, “vile, di poco conto”, per la sua ininfluenza.

E poi daesh (Isis), il fronte jabhatu-n-nusrah, al-wahabiya (in riferimento alla parte di estremisti in seno all’Islam), khubbez e raghif khubbez (il pane e la pagnotta in dialetto siriano), bard (il freddo), sabab ta’akhkhur an-nasr (la causa del ritardo nella vittoria), karama (dignità), huquq insan (diritti umani), mumana’a (resistenza, opposizione), agone (è una parola polimorfica inventata da un regista di Yarmouk!), nashit (attivista), khaya (fratello in dialetto palestinese), jaddi (mio nonno – e la persona che l’ha scritto ha da poco saputo che suo nonno non tornerà più a vedere, perché non si trovano dottori a Yarmouk), Arab Idol e il suo vincitore palestinese Mohammad Assaf, di Gaza, che di recente ha anche registrato un messaggio di solidarietà col campo di Yarmouk.

Uno degli ultimi commenti lo ha lasciato un ragazzo, per me ora emblema dello spirito del popolo siriano che nonostante tutto mantiene viva la fiamma dell’umorismo più ingegnoso. Ha commentato: “Se scrivi su Google le lettere dell’alfabeto arabo ‘ya’ e ‘lam’, la prima opzione che ti dà da scegliere è “yal’anu ruhak” (Accidenti a te – la frase che vi dicevo rivolta ad Hafez Assad) – Non è che Google sarà parte di un complotto cosmico?!” e ha aggiunto la sua bella risata araba.

E io adesso aggiungo il mio nome tra quelli di chi ha partecipato, così non lo firmo l’articolo, ma sarà come firmarlo tutti insieme, perché è insieme a loro che ho potuto scriverlo, e provare a capire, ferirmi, sorridere di nuovo. Come spero abbiate fatto anche voi che l’avete letto. Ho paura di chiedermi quali parole riserva il 2014 in Siria. Non ho più paura, però, di chiederlo ai siriani. Ora che so quanta voglia hanno, di condividerle con noi.

Claudia Avolio, Iyad Hayatleh, Ayham Hamada, Anas Salameh, Ahmed Al-Araby, Hasan Tanji, Abu Muhammad al-Ferdousi, Salim Salamah, Fadi Khttab, Ziad Khilleh, Mayssa Hussain, Huda Edrees, Areej Walma Tariq, Nawal Haj, Mohamad Mhd, Nedal Touba, Alaa Almagrhibi, Khulud Abdarrazaq, Alaa Rayan, Issa Bishara, Sahar Abdulla, Dana Alkasem, Nedal Touba, Naser Abu Rashid, Ahmad M Zein, Karam Abd Alah, Khulud Ahmad, Adnan AD, Ramlah Abou-Ismail, Bassam Kassem, Huda Ra, Fawzi Assilawi, Rasha ‘Aoutu, Manal Ghazzawi, Hiba Rayan, Soliman Al-bouti, Elham Aljazairy Ismahan Sharih, Maha Abu Kreiby, Mahmoud Zaghmout, Mohammad Khlefawi, Nidal Ghariba, Mohammed Taha, Lina M Kh, Amen Aishek-Ali, Naji Hayatleh, Mahmoud Abobaker, Hani Awad, Jamal Zaiter, Talal Shahror, Abdarrahman Halaq, Basila Abu Hamid, Mona La Gitana, Khaled M Abbas, Ash-sha’biyya Al-Hurra, Anas Hayatli, Salam Haysh, Samer Agrabawi, Hala Alsamman, Taghreed Mohammad, Zainab Zakiya Baj’a, Kenaan Alobied, Asma Tayyem, Ahmad Azza, Hammam Tayym, Fatimah Saleh, Houda Altoubh