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Damasco, la grande trappola per topi siriana

di Dunia Manzar (El Pais 29/12/2012). Traduzione di Claudia Avolio.

A Damasco si entra avvolti da una nebbiolina scura di polvere e distruzione. La circonvallazione che attraversa la capitale – ultimo bastione del regime e speranza per chi fugge dalla guerra – è un cumulo di traffico, pietre, checkpoint e rifugiati in cerca di riparo. “Quest’auostrada non è sicura, i ribelli ne hanno presa una parte e ci sono combattimenti,” grida un giovane in uniforme, con baffi sottili in stile Assad, mentre agita la mano per far retrocedere le automobili. Qualunque percorso che prima durava 30 minuti, oggi dura ore. Un aereo dell’Esercito sorvola l’area prima di scuotere il suolo: “Davvero vicino, dev’essere stato a Jubar e Zamaika a est di Damasco,” commenta un conducente.

 

Nei sobborghi circostanti, le case giacciono demolite: tetti caduti, vetri puntellati di colpi, auto bruciate… Le donne giunte dalla zona di montagna del nord sfruttano il traffico per mendicare qualcosa da mangiare. Dal finestrino di un camion, una mano lascia cadere carote: qualcosa che scatena un tumulto di bambini e donne farglisi intorno. Damasco si è trasformata in un grande albergo che ospita una mescolanza di damasceni, rifugiati palestinesi, rifugiati del sud e del nord senza risorse che aspettano solo uno sviluppo futuro. Ma il conflitto è talmente radicato che il mediatore internazionale in Siria, Lakhdar Brahimi, crede ci siano solo due alternative. “Se l’unica opzione è davvero scegliere tra un inferno e un processo politico, dobbiamo lavorare senza sosta per il processo, che è molto difficile e complicato,” ha assicurato da Mosca, dove ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov – fa sapere la Efe. In Russia, alleata di Damasco, Brahimi ha detto che “l’altra alternativa è la somalizzazione della Siria”.

 

La preoccupazione di Brahimi si è concentrata sulla capitale: “Se a Damasco fa presa il panico e un milione di persone abbandona la città, possono scappare solo in Libano o Giordania: nessuna delle due può accogliere mezzo milione di persone ognuna”. Nonostante i quartieri periferici dell’estremo sud della capitale segnino il fronte dei combattimenti, il cuore di Damasco non è immune dagli attacchi dei ribelli. Di notte, dal centro si sentono sparatorie nella piazza delle sette fontane, a Mezzeh (dove si trovano ambasciate ed edifici governativi), Midan o Hidashirin. Molte strade centrali restano chiuse al traffico con barriere di cemento che proteggono gli edifici istituzionali. Il ritratto di Bashar al-Assad in uniforme militare e occhiali da sole pende da ogni montagnola di sacchi di sabbia, dietro i quali i militari controllano e registrano passanti e veicoli.

 

Nelle strade più piccole sono i comitati popolari, o semplici civili armati dal regime, che controllano il passaggio. “A volte armano giovani violenti che creano molti problemi,” si lamenta una vicina di Bab Sharqi. Al crepuscolo iniziano a spuntare piccoli fuochi per le vie e nei patii delle case. Muna approfitta dell’oscurità per distribuire un po’ di cibo. “Abbiamo solo 12 ore di elettricità al giorno, in alcuni quartieri anche meno, e la scarsità di gas e combustibile per cucinare e scaldare le case peggiora con l’arrivo dell’inverno”. Il silenzio della notte amplifica il rumore dei mortai che colpiscono i sobborghi ventiquattr’ore al giorno.

 

Abu Hassan, 67 anni, pala in mano, si sforza nel pulire ciò che resta della sua casa: tre pareti, pietre e terra bruciata. Vive a 500 metri dal quartiere cristiano e si lamenta di non ricevere aiuti dallo Stato: “Ho chiesto che mi aiutassero, ma non se ne curano. Entrambi i lati sono uguali. Io non credo di andarmene”. Testardo, le mani logore per via delle pietre, prosegue per ricostruire la propria isola nel mezzo della distruzione. Damasco è ben rifornita di cibo, anche se la scarsità si fa notare in prodotti fondamentali come il pane, che provoca lunghe code di tre, sei ore davanti ai forni sovvenzionati dallo Stato. Lunghe file di macchine attendono nel tardo pomeriggio davanti ai benzinai che ancora dispongono di carburanti. Ma il problema più grande continua ad essere la mancanza di lavoro, e quindi di denaro, per far fronte a prezzi che nell’ultimo anno sono triplicati.

 

Gli unici che fanno la propria fortuna sono i negozi di liquori. Abu Marawn serve tra le bottiglie: “I bar hanno chiuso e la gente trascorre le giornate rintanata in casa senza elettricità né tv – non resta che bere e fumare”. Il prezzo di una bottiglia di whiskey è salito da 8 a 14 euro. La guerra in Siria, in atto già da 21 mesi, ha causato una marea di rifugiati che fuggono dai combattimenti. La cifra – tra i 2 e i 4 milioni di persone – oscilla per il costante movimento di famiglie che sono scappate al nord da città castigate dai bombardamenti come Homs e Aleppo, e che ora si dirigono a Damasco. Tra i rifugiati nella capitale ci sono i palestinesi del campo di Yarmuk che oggi trovano riparo nel quartiere ebraico. Nur è fuggita con suo marito, le loro quattro figlie e sua madre. L’entrata di Yarmuk – sudovest di Damasco – è distrutta. L’esercito controlla il ritorno di rifugiati nelle zone sicure e impedisce il passaggio alle zone in mano ai ribelli: “Non passate da qui, ci sono franchitiratori, un martire è morto proprio qui poco tempo fa”.

 

Dove indica la sua mano c’è una pozza di sangue e resti di metallo bruciato. Donne con sacchi sulla testa proseguono scansando le pallottole. La casa di Nur è stata del tutto distrutta e oggi sono ospiti di una famiglia alawita i cui membri sono, a loro volta, rifugiati. “I nostri vicino a Homs ci hanno avvertito che eravamo nella lista di alawiti che i ribelli vogliono sterminare. Abbiamo svenduto la casa e ce ne siamo venuti in questo quartiere. Ci sentiamo più sicuri tra le minoranze, ma abbiamo pensato di andarcene a Tartus [a 30 chilometri dal confine col Libano],” spiega il padre di famiglia, che preferisce restare anonimo. A causa della pressione di centinaia di migliaia di rifugiati giunti da tutto il Paese, gli affitti sono passati da 100 a 400 euro al mese, ammontare impensabili per la stragrande maggioranza dei disoccupati siriani. Molti di loro non possono permettersi di divenire rifugiati e fuggire in Libano o Giordania, cosa che rafforza la solidarietà gli uni verso gli altri.

 

Però ammassati nelle case tutto il giorno, senza lavoro, cose da fare né luce, gli attriti tra famigliari rendono gli spazi più stretti. Le discussioni politiche finiscono in genere passando alle mani, visto che spesso i più giovani sostengono i ribelli e i grandi stanno dalla parte del regime. L’incertezza e il prosciugarsi dei risparmi consumano i civili. Se non fosse per l’alto numero di funzionari che ancora percepiscono i propri salari, Damasco non avrebbe più da tempo clienti nei suoi mercati.

 

Link: Damasco, la gran ratonera siria

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