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Da Beirut a Baghdad, passando per Teheran

di Anthony Samrani L’Orient-Le-Jour (04/11/2019) Traduzione e sintesi di Katia Cerratti

L’Iran ha qualcosa di cui preoccuparsi. Mai negli ultimi anni la sua influenza nel mondo arabo era stata così minacciata. Non dalle sanzioni americane, non dai rischi di una guerra regionale, ma dalla rivolta delle popolazioni in Libano e Iraq. Certo, i manifestanti in entrambi i paesi si ribellano soprattutto alla corruzione della classe politica e chiedono migliori condizioni di vita. Certo, la denuncia dell’influenza iraniana non è una delle forze trainanti della protesta a Beirut, mentre è direttamente additata a Baghdad. Certamente, la Repubblica islamica potrebbe ritenere di non avere molto da temere da una banda di pacifisti, qualunque sia il loro numero, che urla slogan per strada.

Ma se il leader supremo iraniano Ali Khamenei si è sentito in dovere di denunciare la mano degli occidentali dietro le turbolenze che agitano i “paesi vicini”, se il generale Qassem Soleimani si è recato in Iraq il giorno dopo l’inizio delle manifestazioni, vantandosi di sapere come gestire questo tipo di eventi, se le milizie sciite pro-iraniane hanno sparato sulla folla a Baghdad e se il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha moltiplicato i discorsi miranti a dividere la strada, è per la stessa e unica ragione: Teheran teme di perdere gran parte dello status quo in questi due paesi.

In Libano, la rivolta ha messo in luce il vero tallone d’Achille di Hezbollah, messo in difficoltà dalle rivendicazioni socio-economiche della sua base, piuttosto che dalle critiche che riceve a causa delle sue scelte geostrategiche. In Iraq, la manifestazione ha finito per rivelare l’estensione della dominazione iraniana che, guidata da un sentimento di arroganza, ha ritenuto che le milizie potessero sostituirsi allo Stato e che il nazionalismo iracheno si sarebbe diluito nel wilayet el -faqih.

A Beirut come a Baghdad, gli sciiti sono scesi in strada per esprimere il loro malcontento. Ciò contraddice la visione del mondo arabo diffusa dall’Iran che si vuole protettore del “mondo sciita”, di fronte a una maggioranza sunnita aggressiva. Peggio ancora, ciò ricorda le richieste avanzate dal popolo in Iran all’inizio del 2018 e crea una solidarietà simbolica, pericolosa per il regime iraniano, tra Beirut, Baghdad e Teheran.

Nei due paesi arabi, gli imposti dell’Iran sembrano ormai essere i principali difensori del “sistema”, di cui si servono per dare una facciata legale alle loro azioni e, come gli altri attori, per trarne benefici economici. Lo Stato nello Stato non è più sufficiente per loro, vogliono allo stesso tempo essere in grado di controllare, se non di essere in grado di dettare completamente, tutto ciò che accade nel campo istituzionale.

Da Beirut a Baghdad, passando naturalmente per Damasco, la Repubblica islamica dell’Iran è oggi la principale forza controrivoluzionaria. Non è certamente l’unica potenza straniera a voler guidare il corso degli eventi a suo favore – basta ricordare che solo due anni fa il Primo Ministro Saad Hariri è stato tenuto in ostaggio dal suo principale alleato, l’Arabia Saudita – ma è l’unica ad avere un tale potere molesto per farlo.

In Iraq, come in Libano, la rivoluzione sembra un’impresa titanica. La resistenza di tutta la classe politica, la sensibilità degli “assabiyas”, il gioco delle potenze regionali appaiono come ostacoli difficili da superare. Ma è proprio la presenza degli imposti dell’Iran a rendere impossibile oggi la rivoluzione. Non che le altre parti siano “dalla parte del bene” o che non siano pronte a fare qualsiasi cosa per mantenere la presa, ma nessuno può permettersi di dire no in modo così frontale a qualsiasi prospettiva di evoluzione che rimetterebbe in discussione la sua influenza. Nessuno può permettersi di rispondere alla sfida della strada con la seguente equazione: se volete la rivoluzione, avrete la guerra.

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