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Come le tigri d’Asia

El Watan dz (28/07/2013). Sintesi di Carlotta Caldonazzo

Le rivolte che dal 2011 hanno interessato e tutt’ora interessano il mondo arabo hanno innescato cambiamenti importanti che rischiano tuttavia di essere vanificati, almeno sul piano della giustizia sociale, se non si elaborano nuove strategie economiche in grado di risolvere quei problemi che hanno dato origine alle proteste popolari. Oltre la facies mediatica del conflitto etnico, confessionale o tra laici e religiosi ci sono ragion di stato e lotte di potere, avversari da sempre di ogni vero progresso.

Oltre ai paesi caratterizzati da un elevato tasso di disoccupazione e scarse prospettive di crescita economica, proteste popolari di entità variabile si sono verificate anche in paesi come il Bahrein o l’Arabia Saudita, dove la componente sciita (maggioritaria nel primo, minoritaria nella seconda) è stanca dello status di cittadinanza di serie b. Come sottolinea Georges Corm, economista e storico libanese specializzato nel mondo arabo, un cambiamento importante ha interessato anche l’emirato del Qatar, il cui emiro Hamad bin Khalifa Al Thani ha abdicato in favore del figlio Tamim, lasciando uno scenario politico regionale che sembrava favorevole. Così è stato fino al fallimento dell’ala takfirista (corrente islamica radicale che considera i musulmani moderati al pari degli “infedeli”, da takfir, “rendere infedele”) dell’opposizione siriana armata, le cui azioni hanno finito per rafforzare il regime di Bashar al-Assad. A sfavore dell’ex-emiro ha giocato inoltre il suo sostegno finanziario e militare agli insorti islamici in Mali.

Quanto all’Egitto, secondo Corm la situazione è preoccupante soprattutto perché da essa dipendono i delicati equilibri regionali. Destituendo l’ex presidente Mohamed Morsi, spiega, l’esercito ha voluto porre fine a un colpo di stato mascherato, ovvero all’appropriazione da parte dei Fratelli Musulmani di tutti i centri di potere del paese, forze armate comprese. Per questo i militari hanno incoraggiato il movimento di opposizione laica Tamarrod a protestare e, di fronte all’inflessibilità del presidente, hanno messo in atto un colpo di stato. Dunque nessun tentativo dell’esercito di conquistare il potere, visto che lo detiene dalla morte di Jamal Abdel Nasser. Questione ben più significativa per l’intera regione è invece lo scontro tra partiti laici e religiosi, la cui soluzione è l’elaborazione di “un modello alternativo di sviluppo economico ispirato all’esperienza delle tigri asiatiche”. Un sistema che faccia tesoro della crisi che affligge le economie neoliberali schiacciate dalle istituzioni finanziarie internazionali, risolvendo definitivamente quei problemi che hanno causato l’ondata di proteste nel mondo arabo: la massiccia disoccupazione giovanile, l’ingiustizia sociale e l’eccessiva concentrazione di capitale nelle mani di personaggi vicini al regime. Finora nessun governo nato dalle rivolte li ha affrontati, preferendo spostare l’attenzione su questioni di maggior visibilità mediatica e di minor impatto sociale (quindi con un rischio minore di perdere privilegi).

Intanto si allontana la possibilità di risolvere politicamente il conflitto siriano, dove sono in gioco troppi interessi delle potenze regionali, paesi, spiega Corm, in grado di sostenere militarmente ed economicamente i gruppi rivali. Per citare qualche esempio Turchia, Arabia Saudita, Qatar, che appoggiano l’opposizione ad Assad, e il movimento sciita libanese Hezbollah, schierato con il regime di Damasco. Anche in questo caso non bisogna tirare in ballo motivazioni confessionali (come l’opposizione manichea tra sciiti e sunniti), ma semplici considerazioni strategiche. Le vittorie di Hezbollah contro Israele nel 2000 e nel 2006 infatti sono state possibili solo grazie alle armi iraniane passate per il territorio siriano. L’eventuale caduta di Assad rischia di rompere questa collaborazione e indebolire militarmente il movimento sciita, facendo emergere nuovi centri di potere ostili a Tehran e ai suoi alleati.