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Chi è il capro espiatorio del Libano?

Presentare Salamé, il governatore della Banca centrale del Libano, come capro espiatorio è il risultato diretto di due fattori: il risentimento di Hezbollah, le cui fonti di finanziamento si sono in parte prosciugate anche a causa di Salamé, e la tendenza generale a rintracciare le cause dell’attuale situazione libanese unicamente nell’epoca di Saad Hariri

di Marah Bukai, al-Arab, (01/05/2020). Traduzione e sintesi di Francesca Paolini

Il Covid-19 non è riuscito a fermare il movimento popolare che sta attraversando il Libano, paese che sta vivendo un periodo di caos devastante e di rabbia travolgente che fa presagire una caduta libera del nuovo governo sotto il peso di due virus mortali: la corruzione, virus di lunga data, e il Covid-19, da poco arrivato.

Massicce proteste sono esplose nelle più grandi città a nord di Tripoli, nonostante il lockdown imposto per frenare la pandemia che è andata a coincidere con il peggioramento della situazione economica, il crollo della lira libanese rispetto al dollaro e la perdita di controllo sui prezzi dei beni essenziali. Ai cittadini libanesi non è rimasta quindi che una scelta: tornare a protestare nelle piazze rischiando la morte. Già dal primo giorno di proteste, a Tripoli è stata confermata la morte di un manifestante per mano delle forze di sicurezza che hanno aperto il fuoco per fermare i disordini nati dalla frustrazione e dalla tensione che attraversa le strade in rivolta.

Il governo di Hassan Diab sembra pronto ad assorbire questa rabbia popolare in rapide riforme volte a fissare il tasso di cambio dollaro-lira libanese all’interno di un mercato dei cambi controllato in maniera incontrastata da Hezbollah. Uno dei manifestanti di Tripoli aveva chiesto al governo l’arresto di circa 300 “cambisti”  che lavorano  per reti bancarie gestite da alcuni membri di Hezbollah, presunti responsabili di questa svalutazione senza precedenti della lira, il cui tasso di cambio con il dollaro ha toccato un rapporto di 3800 a 1, a fronte di un tasso di cambio che non aveva superato le 1500 lire neanche nei momenti più critici.

Il primo ministro Hassan Diab ha subito scaricato la responsabilità sul governatore della Banca centrale del Libano accusandolo di aver perseguito politiche “ambigue”che hanno portato ad un crollo vertiginoso della lira. Diab ha quindi chiesto di aprire un’inchiesta indipendente e affidabile per indagare sull’ultimo trasferimento di miliardi di dollari dalla Banca centrale verso l’estero, ignorando le proteste sorte anche a causa dell’elevato deficit pubblico.  

Sembra che il governo, così come la presidenza libanese, abbiano puntato il dito unicamente contro Riad Salamé, governatore della Banca centrale dal 1993, il quale aveva contribuito negli ultimi anni all’applicazione delle sanzioni americane contro Hezbollah. Presentare quindi Riad Salamé come unico capro espiatorio è il risultato diretto di due fattori: il risentimento di Hezbollah, le cui fonti di finanziamento si sono in parte prosciugate anche a causa di Salamé, e la tendenza generale a rintracciare le cause dell’attuale situazione libanese unicamente nell’epoca di Saad Hariri.

Ma per comprendere al meglio lo scenario attuale dovremmo tornare più indietro nel tempo e soffermarci al 2005, anno storico in cui si consumò l’omicidio del primo ministro Rafiq Hariri, a cui seguì la liberazione del Libano dal protettorato siriano, che aveva portato nel paese corruzione, oppressione, settarismo e ingenti quantità di armi, il tutto cedendo potere alle milizie e alle mafie finanziarie legate alle mafie di Damasco.  Con l’affermarsi della sovranità libanese sarebbe stato opportuno adottare riforme volte ad eliminare l’eredità del protettorato siriano,  eppure le riforme non sono arrivate e la spaccatura settaria si è rafforzata, così come la corruzione che ha concentrato enormi ricchezze in mano a pochi, a spese del debito statale e del popolo libanese.

Com’è noto il discorso settario e le pratiche di intimidazione si sono presentate sotto il marchio distintivo di Hezbollah, come dimostrano gli eventi che sconvolsero Beirut il 7 Maggio 2008, quando le forze armate di Hezbollah e dei suoi alleati – il movimento Amal, il Partito Nazionalista Sociale Siriano e il Baath – occuparono la capitale e alcune zone della provincia a seguito di due decisioni del consiglio dei ministri: la confisca delle reti di comunicazioni facenti capo al corpo di comunicazioni di Hezbollah e il licenziamento del capo dei servizi di sicurezza dell’aeroporto nazionale di Beirut, zona strettamente posta sotto controllo del partito.

I governi libanesi che si sono susseguiti hanno fallito nel riunire le armi nelle mani dello stato,  che si è dimostrato flessibile nell’accettare la rappresentanza politica di Hezbollah all’interno dei ministeri più importanti, ma non è riuscito a sottrarre al partito il controllo delle armi, né a porre fine all’infiltrazione iraniana. È proprio il trasferimento di armi e combattenti di Hezbollah in Yemen, in Siria e in Iraq l’esempio che meglio riesce a far cadere tutte le motivazioni e le giustificazioni varie ad oggi sostenute dal governo.

Per quanto riguarda la corruzione, sappiamo che i programmi di sviluppo si sono trasformati in bottini da spartire tra chi monopolizza le posizioni politiche e i detentori di armi  che hanno sempre declinato qualunque responsabilità. I grandi progetti nel campo dell’elettricità, delle comunicazioni e della telefonia mobile hanno dato vita ad una classe di “profittatori di guerra”  che hanno lasciato al popolo libanese una sola scelta che sta prendendo forma nelle manifestazioni in corso: vendicarsi delle banche lanciandovi contro molotov e buttando giù le porte delle istituzioni finanziarie.

Riportando le parole di Walid Shaqir, la complessa situazione in cui sta affondando il Libano non esclude nessuna forza politica, che sia stata questa rappresentata nel governo oppure no, esattamente come sostengono gli slogan che risuonano nelle strade libanesi in rivolta: “kellon yani kellon, tutti significa tutti!

Marah Bukai è una scrittrice e ricercatrice siro-americana, membro del Comitato Costituzionale Siriano.

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