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Che fare dell’islam politico

Di Mustafa Akyol. Hurriyet Daily News (13/07/2013). Traduzione e sintesi di Carlotta Caldonazzo

L’islam politico è stato un tema dominante nella politica mediorientale degli ultimi due decenni, ma a portarlo al centro del dibattito internazionale è stato il colpo di stato dell’esercito egiziano e le tensioni politiche in Turchia. In molti si chiedono se stia per morire o per trionfare, se i suoi cambiamenti porteranno alla radicalizzazione o alla moderazione in vista di nuovi equilibri.

Rispondere a simili questioni non è affatto facile, in primo luogo perché “islam politico” è un’etichetta dal significato fumoso, che può designare diverse realtà. Un’indeterminatezza semantica  dovuta ai molti modi in cui l’islam può entrare in politica. Il Corano infatti non contiene definizioni precise di cosa sia o come si amministri uno stato, limitandosi a fornire indicazioni di giurisprudenza o principi generali come quello della consultazione. Il modo di tradurre simili precetti in una linea politica dipende invece da fattori non religiosi, come il contesto o la mentalità dei singoli. In tal modo i fautori di uno stato autoritario interpreteranno i versetti coranici in questa direzione, ad esempio istituendo una polizia religiosa per controllare che i cittadini adempiano all’obbligo della preghiera (come avviene in Arabia Saudita). Menti più liberali considereranno invece quest’ultimo come un dovere personale di prerogativa dei singoli e non dello stato. Similmente l’espressione “ordina il bene e vieta il male” si presta a differenti interpretazioni, secondo la forma mentis dei singoli uomini politici.

Il problema fondamentale dell’islam politico è che si è sempre affermato all’interno di contesti politico-culturali caratterizzati da forti spinte autoritarie e conservatrici, ragion per cui ha sempre avuto avversari il più delle volte ugualmente autoritari. È il caso di Turchia, Tunisia o Iran, paesi con una lunga storia di repressione dei movimenti e persino delle usanze islamiche, dove i sedicenti liberali hanno vietato alle donne di indossare il velo con lo stesso zelo e la stessa ottusità con i quali i partiti islamici tentano di imporlo. Chi in piazza Tahrir ha applaudito all’ultimo colpo di stato in Egitto non è più liberale degli eversori islamici radicali.

Il problema dunque non è come debellare l’islam politico o come secolarizzare le società dei paesi islamici, ma come far evolvere la loro cultura politica in senso liberale e democratico, cambiamento auspicato anche per paesi come Russia, Cina e Birmania. Secondo l’autore dell’articolo, un modo per raggiungere questo obiettivo potrebbe essere promuovere l’economia di mercato, quindi lo sviluppo economico, che a sua volta rafforzerebbe la classe media, generalmente di tendenze liberali. É il cammino intrapreso ad esempio dalla Turchia. Nondimeno vale la pena di osservare che il legame tra economia di mercato e potere politico della classe media è tutt’altro che necessario, come dimostra l’impoverimento di questa fascia sociale nei paesi investiti da crisi economiche e finanziarie. In secondo luogo non ha carattere di necessità neppure l’associazione tra classe media e liberalismo, come si è visto negli episodi di repressione brutale nelle piazze di Istanbul.

Un altro modo per favorire l’evoluzione dei movimenti islamici è evitare che si sentano assediati. Quindi niente occupazione o bombardamento dei loro paesi, né colpi di stato nei governi da loro guidati, ma apertura al dialogo e al confronto. Ciò non debellerà da un giorno all’altro il maschilismo, i deliri paranoici e l’inettitudine dei partiti islamici, ma d’altronde neanche il processo di secolarizzazione del “cristianesimo politico” dall’inquisizione al liberalismo di Martin Luther King è avvenuto dall’oggi al domani.