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Arabo in crisi: strategia o olocausto linguistico?

di Tawfiq Qarira, docente di Linguistica presso l’Università di Tunisi (AlQuds AlArabi 15/06/2012). Traduzione di Claudia Avolio

 

Non trascorre anno senza un convegno tenuto in un Paese arabo o islamico in cui si sentenzi che la lingua araba è in crisi. Gli anni passano, e l’arabo classico è come se col tempo migliori. Una lingua della cui scrittura si servono le arti, tradotta da chi si occupa di Scienza, plasmata in forma di comunicati e notizie, che offre i suoi titoli alla politica, al calcio, all’economia. Una lingua di cui godono i giovani e i più piccoli quando guardano i film d’animazione. I politici arabi tengono i loro discorsi in arabo classico, gli analisti di politica stranieri ne hanno una padronanza perfino maggiore di chi lo parla come nativo. Quando ti invitano nelle università straniere incontri chi ti parla in un arabo del II o III secolo di poeti come Jahiz, Sibawayh o al-Mutanabbi, e ti rendi conto che è parlato da persone che di questi poeti non condividono l’etnia, né la lingua.

 

L’arabo è ancora vivo, nonostante alcuni addetti ai lavori di certe università ne dichiarino la crisi e denuncino che sia diventato una marionetta in mano alle altre lingue straniere o che i dialetti l’abbiano destabilizzato, rendendo la lingua standard un ibrido destinato ad essere annoverato tra le lingue morte e sepolte. Queste crisi di panico non sono scientificamente giustificate e non hanno una base fondata sulla realtà: la lingua araba compete con le lingue più diffuse al mondo, grazie al numero di persone che la parlano e all’incremento di coloro che desiderano impararla nelle università su scala globale, soprattutto dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Tali eventi hanno visto sorgere un desiderio: non quello di conoscere la cultura di una civiltà accusata degli attacchi, ma quello di apprendere la sua cultura attraverso la sua lingua originaria.

 

A coloro che nell’ambito di forum accademici hanno definito la lingua araba in crisi, pongo le seguenti brevi domande a cui dovrebbero rispondere prima di fare qualsiasi diagnosi all’arabo o alle altre lingue.

 

1) Qual è la vostra visione del multilinguismo e del rapporto che l’arabo classico può instaurare con esso?
Il multilinguismo non è un segnale che qualcosa non va, quanto piuttosto uno strumento realistico e funzionale. L’origine di popoli e culture non ha niente a che vedere con una lingua unitaria, fa anzi già parte del multilinguismo. L’arabo è passato attraverso molte lingue diverse, ed è anche dal loro grembo che è venuto alla luce, toccando lingue antichissime come il fenicio. E ancora oggi resta una lingua che prende in prestito dalle altre, così come le altre lingue attingono all’arabo. Ritenere che le lingue stiano invadendo l’arabo è una visione miope che non mette a fuoco la vita delle lingue e la loro interazione inquadrandole dalla giusta distanza.

 

2) Che rapporto c’è tra l’arabo classico e i suoi dialetti?
E qui vorrei richiamare l’attenzione dei governanti detrattori della lingua – che vivrebbe una crisi derivata dalla tirannia dei suoi dialetti – sul fatto che oggi la lingua parlata ha per antenato una lingua che era usata dalle masse prima che i dialetti la sostituissero. Secondo una supposizione, quando abitavano la Penisola Araba, gli Arabi non avevano una lingua unitaria: possedevano infatti diverse varianti, e la formazione della lingua vera e propria si rifaceva soprattutto a quella della popolazione nell’Hijaz – in quanto la più usata, e la più famosa – su cui si sarebbe basata anche la lingua del Corano.

 

3) Che ruolo gioca il fatto di insegnare proprio l’arabo classico?
Non è forse dovere degli insegnanti trovare un curriculum educativo adeguato, in modo da favorire l’apprendimento di una lingua viva che loro stessi accusano stia morendo? Ogni insegnante o ricercatore dovrebbe chiedersi se le lezioni di Letteratura Araba come sono state pensate finora aiutino effettivamente nell’apprendimento della lingua. In altre parole: che potenzialità risiedono nell’insegnare le mu’allaqat (forma poetica araba) a uno studente alle prime armi? Non pregiudica forse il suo rapporto con questa lingua che vede stagliarsi dinanzi a lui come alti cancelli di ferro che trova serrati?

 

4) Per quale ragione quando il mondo accademico si imbatte nell’arabo non riscontra nei suoi dialetti un aiuto esemplare nel parlato, e lo trova invece nell’arabo classico?
La lingua classica non gioca forse un ruolo nel tradurre la lingua parlata? E allo stesso modo, i vari dialetti non giocano forse lo stesso ruolo nel tradurre la lingua classica per il pubblico che non conosce l’arabo classico e vuole capire cosa dicono i notiziari o gli annunci mensili o un episodio delle musalsalat (serie televisive)?

 

5) Le lingue non prendono forse in prestito norme non linguistiche, come nel caso dei parlanti nei confronti di chi parla un’altra lingua?
Qui la lingua è presa in considerazione in base all’efficacia che riesce ad avere nella sua cultura, nella sua politica ed economia. In tale contesto, la lingua sarà vista come uno strumento, il cui difetto non va ricercato nelle sue espressioni, quanto piuttosto in una mente che non riesce a coglierne i risultati, o che è incapace di cogliere la sfida dinanzi ad altre menti più creative. A conti fatti, la crisi attribuita alla lingua non è nuova, né effettiva. La mentalità con cui ci si pone dinanzi a tale crisi non cerca di risolverla, ma di amplificarla. Ed è una mentalità vecchia che ascrive la crisi alla macchina, e non a chi la guida.