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Arabia Saudita, Pakistan e il programma nucleare

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Articolo di Marianna Barberio.

Lo scorso 17 maggio The Sunday Times ha riportato la notizia di un “accordo strategico” tra l’Arabia Saudita e il Pakistan, che prevede l’acquisizione di armi atomiche da parte saudita in territorio pakistano. La notizia ha subito diffuso un certo allarmismo a Washington e in altri Paesi occidentali, soprattutto in seguito alla conclusione del summit di Camp David.

Infatti, secondo opinionisti e analisti politici il rifornimento di armi nucleari al regno saudita minerebbe alla stabilità e sicurezza regionale e contribuirebbe ad una sua proliferazione in Medio Oriente. La notizia è stata però smentita da entrambe le parti. Il Ministro degli Esteri pakistano la definisce un’accusa senza fondamenta, di speculazione e pericolosa, in quanto “il Pakistan può ritenersi uno stato responsabile circa il progetto nucleare e vanta di strutture di comando e di controllo nel caso di esportazione”. Da parte sua, l’Arabia Saudita fa leva sul Trattato di non proliferazione del nucleare, di cui essa è firmataria e che prevede sanzioni legali nel caso di accordi tra nazioni per l’istituzione di armi nucleari. Inoltre, come sottolinea un funzionario della difesa saudita, essa stessa collabora all’operazione free-nuclear in Medio Oriente.

Sebbene l’argomento non abbia mai ricevuto un’attenzione mediatica precisa e diretta, la recente operazione “Tempesta decisiva” in Yemen, ha guidato un’analisi più accurata, con aneddoti prima trascurati ma che attestano legami militari, economici e politici tra Riyad e Islamabad.

Le relazioni tra i due Paesi si sono intensificate negli ultimi tre decenni, sin dagli anni ’80. Malgrado l’assenza di fonti certe che rivelino nello specifico i dettagli dell’accordo, l’Arabia Saudita sembra aver investito nel programma di ricerca e sviluppo di armi nucleari in Pakistan, finanziando circa il 60% del progetto, e sulla base di ciò, può reclamare una parte di tali armi se esposta a minaccia. E oggi la minaccia arriva dalla repubblica islamica iraniana e dall’accordo nucleare con gli USA che dovrebbe concludersi il mese prossimo.

Nel 1999 l’Arabia Saudita invia in Pakistan una squadra difensiva per visitare i vari siti nucleari (forse 15, secondo una stima redatta dal Daily Times nel 2013, il cui controllo è sempre più ambito da gruppi estremisti e terroristici) e seguire gli sviluppi del programma con Abdul Qader Khan, padre della bomba atomica pakistana. Nel 2003 Riyadh mette in pratica una strategia di opposizione all’Iran che si sviluppa intorno a tre opzioni: acquisire capacità nucleare; mantenere o allacciare legami con una potenza nucleare esistente (il Pakistan); raggiungere un accordo nucleare per un Medio Oriente denuclearizzato. Il Daily Times riporta sempre nel 2013 il trasferimento di due brigate pakistane sul suolo saudita per impedire l’invasione iraniana e l’impiego di 30.000 ex soldati dal Pakistan per combattere in Bahrein e Yemen. Alcuni esperti temono che l’approvvigionamento di armi nucleari da parte saudita possa contribuire al rifornimento di armi ai ribelli siriani contro Assad o a gruppi talebani pakistani con sede in Siria.

Fino ad ora non è avvenuta nessuna trattativa o transizione certa. Nel caso di realizzazione effettiva di quanto esposto, peserebbero sanzioni tanto per il Pakistan (a livello diplomatico e di reputazione internazionale) che per il regno saudita (il ritiro dalla lista del Trattato di non proliferazione nucleare). Questo però non impedirebbe ad altri Paesi di agire allo stesso modo, tra cui Egitto e Turchia.

Per concludere con le parole dell’analista e ricercatore Musa Khan Jalalzay, riportate nello stesso articolo del Daily Times: “La rete di gruppi estremisti e terroristici, la globalizzazione su base industriale e dei mezzi di trasporto, la containerazzione del commercio, la diffusione di tecnologia nucleare e la disponibilità di armi di distruzione di massa rappresentano un’enorme minaccia alla pace nel mondo”. Il timore è che l’esistenza di questi siti nucleari possa finire nelle mani sbagliate.

Altre fonti consultate:

The Guardian

Washington Institute

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