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Arabia Saudita: canoni inversi

Vite di donne saudite tra cittadinanza, religione e sport

Tre episodi di recente hanno scatenato reazioni di sdegno in una parte consistente della società saudita. Questioni identitarie rese più scottanti dal fatto che come protagoniste ci sono cittadine del regno. Una giovane donna ha ottenuto la cittadinanza israeliana, un’altra ha deciso di abbandonare l’islam per convertirsi al cristianesimo, altre due sono partite per Londra per rappresentare il loro paese alle Olimpiadi. L’irritazione dei connazionali non dipende tanto dalla gravità dei fatti in questione, quanto dalla scarsa considerazione di cui gode la donna nella potente petromonarchia: incapace di conoscere a fondo se stessa, svuotata della sua facoltà di pensare, di parlare, di provare sentimenti, privata della sua autonomia esistenziale. C’è chi le biasima, chi le difende, chi ha paura di loro e chi ha paura per loro, ma sono ben pochi a considerare le donne soggetti sociali attivi.

Il primo caso è quello di Alaa Khalef, laureata in farmacia e sposata con un palestinese che vive a Tira, nella zona detta Arab 48. Una città sotto la giurisdizione di Tel Aviv, il che ha fatto sì che la donna fosse la prima saudita a ottenere la cittadinanza dello stato ebraico, sia pure come cittadina di serie B. Alaa, come si legge nelle sue interviste a diversi quotidiani sauditi, sente la mancanza di Jedda, la sua città natale, ma ritiene che la famiglia in Israele sia più coesa che nel suo paese. L’unica sua fonte di inquietudine, spiega, erano gli scontri armati tra l’esercito di Tel Aviv e gruppi di palestinesi, spesso in primo piano sui media arabi, ma più forte è stata l’esigenza di vivere con suo marito, ex compagno di studi all’università di Petra, in Giordania. Al caso di Alaa i concittadini hanno reagito, in particolare su Twitter, tra la sorpresa, la disapprovazione e il disappunto.

Ben più eclatante è la vicenda di una 28enne saudita da poco convertita al cristianesimo. Il suo caso verrà esaminato ad agosto dal tribunale della città di Khobar, dove alla sbarra finiranno i suoi genitori, un saudita e una libanese, “sospettati” di aver convinto la loro figlia ad abbandonare l’islam. Sarebbero stati loro inoltre a farla uscire dal territorio saudita dopo la sua conversione (avvenuta in Bahrein) per trasferirsi in Libano, dove ora vive studiando i precetti della sua nuova fede. In un’intervista apparsa su Youtube la giovane ha spiegato di essersi convertita dopo aver sognato di ascendere al cielo e di ascoltare da Dio in persona che Cristo è suo figlio. Ma a farle amare il cristianesimo come “religione di pace” sono stati soprattutto i comportamenti della polizia religiosa, la Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Pressoché unanime l’espressione di sdegno dei concittadini nei commenti alla videointervista su Youtube, alcuni dei quali chiedono per lei la condanna a morte per apostasia (prevista in Arabia Saudita in stretta ottemperanza alla legge islamica).

Il terzo e ultimo caso è quello della rappresentanza femminile ai giochi olimpici di Londra. L’ingresso delle due atlete saudite è stato un momento di orgoglio nazionale, ma al contempo è stato interpretato da alcuni come una vera e propria offesa all’identità islamica. Un momento storico, segnato dagli sguardi fieri di Sara Attar e Wajdan Ali Seraj Abdulrahim Shaherkani mentre portavano sorridenti la torcia. È la prima volta che Riyadh manda le sue atlete in una competizione internazionale. Specializzate rispettivamente nella corsa e nel judo, le due giovani sono dunque riuscite a rompere i vincoli della rigida tradizione del loro paese, ma già per la giudoka si pone un problema: il presidente della federazione internazionale di judo Marius Vizer ha detto chiaramente che Wajdan dovrà combattere a capo scoperto come le sue avversarie, nel rispetto “dei principi e dello spirito del judo”. Dichiarazioni che contrastano palesemente con i dettami delle autorità saudite, che hanno precisato che le atlete dovranno attenersi alla legge islamica, nonché del padre della giovane, secondo il quale se obbligata a togliere il velo sua figlia tornerà a casa. Sul web intanto diversi loro connazionali le hanno definite “prostitute olimpiche”, accusandole di tradire la loro identità nazionale e religiosa.

Tre storie, tre microcosmi che si dibattono nel macrocosmo di un sistema rigidamente conservatore, che si oppone ai venti del progresso, sicuro della propria impunità e dell’indifferenza della comunità internazionale.

(Carlotta C.)