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Un angolo di Iran che profuma di shambalile

Articolo di  Federica Cocozziello Visconti.

“Come un uccello in volo” di Fariba Vafi richiama alla mente un’immagine di Escher, in cui le architetture si intersecano all’infinito, rendendo impossibile l’incontro tra le figure che vi si muovono solitarie. La protagonista e suo marito Amir salgono le stesse scale, compiono lo stesso percorso, abitano le stesse stanze senza tuttavia incontrarsi mai.

Vivono in Iran, in un quartiere pieno di gente come la Cina e soffocato dagli odori come l’India, con i marciapiedi “talmente stretti che non si riesce nemmeno a camminare fianco a fianco: bisogna per forza andare uno avanti e uno dietro, avanzare in fretta oppure cedere il passo. Se guardi in basso vedi solo macchie: macchie d’acqua, di sputo, di olio, di verdura spiaccicata”.

Lei si racconta con onestà, ammette che dal suo balcone da cui non si vede il cielo, proprio non riesce ad immaginare un mondo senza problemi, senza sofferenza, senza rimpianti ed invidia lui, Amir, per la sua fiducia nel futuro, per la sua convinzione che altrove sia possibile una vita migliore  e che lo spinge a sognare gli orizzonti sconosciuti dell’Occidente: “Perché l’Occidente, il Canada soprattutto, sono l’unica ossessione che ha”. Entrambi infelici, cercano sollievo in direzioni contrarie: lei accanto e dentro di sé, si abbandona al suono di un daf che anima il cortile e la fa volare con le ali spiegate; lui partendo per Baku, a poche ore di macchina, dove il sole è splendente e può passeggiare nei grandi viali alberati, visitando i musei ed ammirando le statue.

Due prospettive in conflitto ed inconciliabili, due sguardi sul mondo che, allontanandoli, li definiscono: lei come “i cespugli di rose e di gelsomini sui muri sventrati, così impregnati di polvere che i poeti non sanno più che farsene”; lui come il suo quartiere, “un Jafar innamorato, con gli occhiali da sole e i capelli pettinati all’indietro, ma con le scarpe bucate di sempre”.