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Algeria-Tunisia: spiragli di solidarietà universale

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Di Sofia Ouahib e Ryma Maria Benyakoub. El Watan. (03/07/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo

Malgrado la strage perpetrata dai cartelli del jihad a Sousse, pochissime sono state le prenotazioni annullate nelle agenzie viaggi, che, al contrario, hanno registrato un aumento delle partenze per la Tunisia dopo la fine del mese sacro di Ramadan. In molti scelgono questa meta per il rapporto conveniente tra qualità e prezzo, altrettanti non vi hanno rinunciato per non perdere denaro o per ostentare coraggio, ma numerosa è anche la schiera di chi ha deciso di visitare il paese vicino proprio dopo l’attacco di Daesh (ISIS). “Mantengo la mia prenotazione per quindici giorni di vacanza a Hammamet”, spiega un quarantaduenne di Algeri, “parto con tutta la famiglia e non permetteremo a nessuno di rovinarci le vacanze, soprattutto a energumeni come quelli”. “Non cambio idea”, esclama un giovane, “non mi fanno paura”. Invece, Aïssa, ventitreenne di Guelma, i suoi propositi li ha cambiati: “Anche se all’inizio non avevamo scelto Sousse, abbiamo modificato i nostri piani… per essere solidali con i nostri fratelli tunisini… perché morire in Algeria o in Tunisia è lo stesso”.

Colpiscono in particolare i commenti lasciati dai lettori di El Watan sull’articolo. Alcuni ricordano come durante il “decennio nero” (gli anni ’90, caratterizzati da una serie di sanguinosi attentati, in cui hanno perso la vita circa 150mila persone, cui si aggiungono il milione di sfollati e decine di migliaia di esiliati) l’Algeria venne lasciata sola dalla comunità internazionale, compresi gli altri paesi del Maghreb, che si limitarono a blindare le rispettive frontiere. Nondimeno, altri commentatori hanno preferito la solidarietà alla giustizia retributiva. “Questa volta non è questione di barricarsi in casa o fuggire in esilio”, scrive qualcuno (o qualcuna) con lo pseudonimo di Noutous, “io li aspetto e so che molti algerini la pensano come me. Per un Maghreb libero e indipendente”. Ancora più deciso (o decisa) akli10, secondo cui “noi (algerini) rispondiamo sempre all’appello. Per salvare la Tunisia portando loro denaro e, perché no, morire sul loro territorio, la solidarietà lo impone… anche per la Grecia si potrebbe fare qualcosa…. come si fece per l’Iraq… siamo qui per aiutare tutti i fratelli e amici”. In comune, quasi tutti i commentatori hanno una prospettiva amara sul futuro dell’Algeria, come se per quest’ultima fosse “troppo tardi”.

Disillusioni e sconforto a parte, tra le righe, tanto dei commenti quanto delle prenotazioni in aumento per le vacanze in Tunisia, si intravvede uno spirito che, probabilmente, è il solo che può fermare i cartelli del jihad. Questi ultimi, come i cartelli della droga in America Latina, o gli eserciti che nessuno stigmatizza, da quello a guida saudita che bombarda lo Yemen, a quello israeliano, fino ai droni statunitensi che seminano strage di civili. Una sorta di internazionale della solidarietà, in grado di agire in barba ai confini (artificiali), perché morire in Algeria o in Tunisia è lo stesso ed è auspicabile che si guardi con pari empatia alla Grecia, alla Libia, all’Iraq e alla Siria (per citare solo alcuni esempi). Da qualcosa sarebbe opportuno iniziare dunque, magari un piccolo gesto, dimostrando come sia sempre possibile impegnarsi per dare inizio a un nuovo corso. Scriveva il geografo anarchico francese Élisée Reclus: “Bisogna abolire questi limiti, queste frontiere che rendono nemici uomini affini”. Chissà che non sia questa una valida soluzione che faccia convergere le esigenze (finora “sapientemente” tenute distinte) di giustizia sociale, pace e sicurezza.

Sofia Ouahib e Ryma Maria Benyakoub sono due redattrici per la versione week-end di El Watan.

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